BON TON E MATRIMONI IN BURKINA

Sono settimane che appunto pensieri, esperienze e sensazioni e poi non ho il tempo di metterle in ordine, quindi ve le propongo più o meno come mi sono venute fuori.

Si imparano sempre cose nuove (osservazione acuta, vero?).

Se chiedi il prezzo di qualcosa, per esempio quanto costa un sacchetto di arance, ti senti rispondere "cinquante-cinquante", e io non capivo perché ripetessero il prezzo. La spiegazione è arrivata: il prezzo si ripete per indicare che ogni unità costa quella cifra, altrimenti uno potrebbe pensare che con cinquanta CFA si porta via tutte le arance.

Poi regole di bon ton. 
Ogni volta che arrivavo al tavolo mentre qualcuno stava mangiando al mio "bon appetit" rispondevano tutti "vous etes invités" e non capivo se si trattasse di una frase di pura cortesia o se veramente mi stessero invitando a pranzo. E' entrambe le cose, e uno la può prendere come vuole, ho scoperto. La cosa fondamentale è di non chiedere MAI "vuoi mangiare?" perché viene presa come un'offesa, come un falso invito fatto nella speranza che l'altro rifiuti. E rifiutano, stessero pure morendo di fame, ma non accetterebbero mai un'invito fatto in questo modo. 
Regola simile anche per gli inviti a casa: qua non si usa invitare a casa propria, sembra un invito fatto forzatamente. Ci si auto-invita semmai, e questo rende i padroni di casa onorati di essere stati scelti, proprio loro, tra tutti; e guai a presentarsi con un pensiero, si darebbe l'idea di non fidarsi e di portarsi dietro la propria roba da mangiare o di voler "pagare" l'invito.

Sabato scorso sono andata al matrimonio tradizionale di un mio amico. Lui e la fidanzata vivono già insieme ed hanno un figlio, ma evidentemente hanno deciso di rendere la cosa ufficiale. Un matrimonio qua si svolge in tre fasi: il fidanzamento ufficiale, il matrimonio religioso e quello in comune. Ovviamente quello più importante è quello tradizionale. La famiglia e gli amici dello sposo si recano quindi a casa della famiglia della sposa, nel nostro caso a Ziniare, un villaggio non molto distante da Ouaga. 
E' già stato deciso in anticipo quanti soldi darà lo sposo alla famiglia della sposa. C'è proprio una list con zii, cugini, parenti vari e quanto ciascuno si aspetta di ricevere dallo sposo. Arriviamo a casa della sposa verso le quattro, e ci fanno accomodare sotto una tettoia. Siamo troppi e devono aggiungere delle panche in ogni angolo di ombra della corte. Stiamo un'oretta a chiaccherare e scherzare tra di noi*. Nel frattempo girano calibas con varie cose da bere. A un certo punto mi rendo conto che qualcosa succede all'ingresso della casa e mi spiegano che le famiglie dei due sposi stanno discutendo del matrimonio. Si tratta di una fase molto importante e da cui i due sposi sono totalmente esclusi, tant'è che stanno a chiaccherare con noi. Il matrimonio infatti unirà le due famiglie, e sono quindi loro a discutere del come e del perché, con l'aiuto di un ragazzo che fa da intermediario esterno.
A un certo punto tutti si alzano e noi, senza sapere perché, li seguiamo. Scopriamo che bisogna fare il giro degli anziani del villaggio**. Giro che dura fino a notte inoltrata. 
Dopo un pò in realtà la maggior parte degli invitati molla la delegazione itinerante e ci fermiamo davanti alla casa della sposa a chiaccherare, ascoltare musica e ridere. Quando a un certo punto siamo tutti un pò sconcertati dall'attesa, finalmente arrivano i reduci dal giro del villaggio. In quattro e quattr'otto ci portano da mangiare riso e pollo in ciotole posate per terra. Si mangia ovviamente con le mani, e qua si apre il mio capitolo pietoso. Chi mi conosce sa che io odio mangiare con le mani, mangio con forchetta e coltello anche le costine di maiale, e non per snobbismo, ma perché detesto avere le mani appiccicose. Ma in questo caso occorre fare di necessità virtù: mi spalmo il riso su tutta la faccia e metà mi finisce sui piedi (peccato perché era buono buono). E tutti che mi guardano e ridono...
Finito di mangiare in quattro balletti si alziamo e ce ne andiamo. A questo punto tutto si sposta a casa dello sposo, ma io sono stanca, ricoperta di polvere e appiccicosa di pollo e mi è anche venuto il raffreddore. Quindi mi scuso e do forfait. La festa, mi raccontano il giorno dopo, prosegue fino all'una inoltrata.

E c'è sempre questo senso dilatato del tempo che mi lascia senza parole, perché stai tre ore ad aspettare che gli sposi facciano il giro del villaggio cotti dal sole e coperti di polvere, ma mentre aspetti ti dimentichi di aspettare. Mi spiego meglio: di solito da noi l'attesa è un momento sospeso, non vissuto pienamente, perché uno con la testa è già proiettato verso quello che sta aspettando. L'attesa da noi diventa tempo perso. Qua invece l'attesa è un tempo pieno, pieno di chiacchere, di risate o anche solo di tempo per pensare a sé. Spero di riuscire a portarmela a casa questa capacità di riempire il tempo.



*Tra parentesi sono testimone di una conversazione tra alcuni miei amici burkinabé da inizio Novecento sull'opportunità che gli autisti non mangino insieme ai padroni per evitare ogni contatto troppo familiare che poi porterebbe l'autista a non saper più stare al suo posto... 
** Nell'immaginario collettivo, o almeno nel mio fino a prima di arrivare qua, i villaggi africani sono costituiti da un gruppetto di capanne o casupole radunate intorno ad uno spiazzo centrale. Non so altrove, ma qua in Burkina non è così. I villaggi si stendono su aree molto vaste, con le case distanziate tra loro anche chilometri, divise dai campi coltivati. Non ne sono sicura, ma credo che questi siano i campi delle donne, mentre i campi degli uomini dovrebbero essere fuori dal villaggio. Le donne dopo aver svolto tutte le altre mansioni di casa (incluso andare a prendere l'acqua al pozzo, che dista a volte anche più di 10 chilometri) lavora il suo campo insieme ai figli più piccoli.

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