BENVENUTI AL NORD

E così, nonostante i consigli di tutti i connazionali in Burkina e in Italia che ho sentito, lo scorso fine settimana siamo andati a nord. Pier doveva fare un po’ di reportage sulle siccità e abbiamo deciso di fidarci di tutti i nostri amici burkinabé che ci hanno assicurato che il paese è sicuro, che non ci sono terroristi, che se si va con le guide non si corrono pericoli. E dal momento che sono qua a raccontarvelo significa che avevano ragione loro.

La partenza sabato è un po’ complicata, la persona che doveva venirci a prendere alle 8 dopo averci assicurato “vengo tra mezz’ora” per un paio di volte alla fine ci fa chiamare alle 10:30 per dirci che non può venire. In un modo o nell’altro a mezzogiorno siamo su una macchina io, Pier, l’autista Paul e Marcel, uno dei ragazzi che lavora qua, a farci da guida. Decidiamo di non andare fino a Gorom Gorom perché data l’ora non avremmo potuto fermarci da nessuna parte ma avremmo dovuto andare direttamente là (ci sono 267 km fino a Dori, da lì partono i 57 km di pista sterrata per Gorom Gorom e ci vuole lo stesso tempo che per arrivare a Dori).
La prima sosta è a Kaya, perché i nostri amici devono ancora mangiare (mentre noi, nell’attesa della mattina, ci siamo scofanati un paio di sandwich a testa). Ci fermiamo al mercato: Pier comincia a fare un po’ di foto, ma si muore di caldo e appena possibile risaliamo in macchina. Ad un certo punto scorgiamo delle coltivazioni di baobab che, come ci spiegano, servono per conservare l’albero più maestoso della savana che sta piano piano scomparendo. Continuando il cammino ci mostrano anche le miniere d’oro in gestione ai canadesi (accesso vietatissimo, ovviamente) e lungo la strada vediamo le donne che scavano buche superficiali nei terreni dei dintorni alla ricerca di polvere d’oro.

Il nostro obiettivo sono i barrage e i pozzi: il primo barrage è quello di Tougouri, e nella sosta buchiamo anche una gomma. Il barrage è parecchio in secca, ci sono donne e bambini che lavano i panni in un’acqua marrone e fangosa, mandrie di zebu che si avviano pesantemente verso la riva per abbeverarsi, e gli occhi curiosi dei bambini che ci seguono ovunque.
Dopo una breve sosta (durante la quale Paul cambia anche la ruota bucata) si riparte. Lungo la strada si vedono i segni di pozze d’acqua prosciugate, riconoscibili dai mucchi di mattoni di fango stesi a seccare. Poco prima di Bani ci fermiamo ad un pozzo presso una chiesa. Ci sono decine di bambini dai 2 ai 14 anni (così mi pare almeno) che riempiono taniche d’acqua azionando la ruota del pozzo. Pier con la macchina fotografica diventa l’attrazione del momento: i più disinvolti si mettono in mille pose diverse, lo chiamano, ridono guardando le foto. Alcune bambine invece prima si scherniscono intimidite, ma vedendo le amiche vicine si mettono a ridere. Io continuo a restare incantata da questi bambini, e sono una che normalmente non ha né attrazione né pazienza verso di loro, anzi. Ma qua non so, hanno uno sguardo al tempo scanzonato e saggio, ti mettono l’anima a nudo.




Lasciamo qualcosa al catechista della chiesa e gli promettiamo di mandargli le foto tramite un prete. 
E si riparte. 
Dato che abbiamo tempo ci rifermiamo a Bani, a vedere le moschee che l’anno scorso ci hanno lasciato senza parole. E anche quest’anno restiamo senza parole, ma nel vedere l’enorme buco nel tetto provocato dalle piogge. Il figlio del profeta ci spiega che si sono stufati di chiedere aiuti che non arrivano, e che ora ci proveranno da soli a ricostruire uno dei pochi monumenti artistici del Burkina. Ma non hanno acqua, non hanno soldi, sono abbandonati da tutti. Io un dubbio a questo punto lo avrei: ma non sarà che non li aiuta nessuno perché sono Mussulmani? La maggior parte della cooperazione passa per le strade della chiesa, o per il volontariato laico, questi Mussulmani senza acqua non saranno forse troppo vicini ai terroristi del Sahara?
Arriviamo a Dori verso il tramonto e andiamo subito all’albergo. Non è quello solito dove vanno i nostri amici, abbiamo chiamato tardi e non avevano delle stanze pronte. L’albergo del Sahel è un edificio con le stanze poste intorno a una corte dove sono stesi ad asciugare vestiti e lenzuola. Prendiamo una stanza con l’aria condizionata perché fa caldo. La stanza è… pareti verde braccio della morte, insetti morti sul pavimento, lenzuola sottili come carta velina, bagno con vista camera; il lavandino grande come una scodella ma tanto dal rubinetto non scende acqua, l’acqua esce solo dalla doccia un tanto al minuto. E l’aria condizionata fa un rumore che sembra di stare un frigorifero (rotto dal momento che non raffredda niente). Ma abbiamo la tv i camera, un vangelo in tre lingue e un libro dei Salmi. Per una sera andrà bene. 



Andiamo a mangiare dell’ottimo pollo nel ristorante di fronte e poi ci prepariamo per la notte. Passata quasi completamente in bianco. Sarà il posto nuovo, sarà che appena preso sonno mi sveglio di soprassalto per un rumore e comincio a avere visioni di rapimenti da parte di sanguinari terroristi, che irrompono nella stanza armati fino ai denti, sarà che vestita non sto tanto comoda e che il lenzuolo mi scappa da tutte le parti, sarà un insieme di tutto questo, ma non chiudo occhio (e non faccio chiudere occhio a Pier) fino alle cinque.
Sveglia alle sette, l’autista ci propone di andare a vedere le dune, a pochi km fuori dal Dori sulla strada per Gorom Gorom. È la strada che abbiamo fatto l’anno scorso, ma non c’era il deserto, che avanza di mese in mese. Non sono dune tipo Sahara, ci sono ancora un po’ di alberelli e di cespugli spinosi, ma la sabbia è finissima (ce ne siamo portati via un sacchettino ma ovviamente l’abbiamo dimenticato nella macchina, quindi niente sabbia).
Ci dirigiamo nuovamente verso Ouaga, e ci fermiamo al barrage di Yalgo, che avevamo visto all’andata. E qua la situazione è ancora peggio che a Tougouri. C’è una presa dell’acquedotto in secca, e la pozza d’acqua che rimane è circondata da un perimetro largo una decina di metri di terra secca e riarsa. C’è un gruppo di persone che pompa l’acqua in taniche per usare per l’irrigazione. Sugli scogli in secca dei bambini pescano dei pesciacci e ci mostrano orgogliosi i due che hanno già preso. E poi bambini che ci seguono prima da lontano timorosi, poi sempre più vicini e sorridenti.
Proseguiamo ancora e ci fermiamo a mangiare in un bel ristorante all’aperto a Kaya, il ristorante del museo come scopriamo. Ci sediamo all’ombra di una pagoda sorretta da statue di legno molto belle. Paul ci racconta che la settimana precedente era andato con dei medici italiani al confine con il Mali a vedere i profughi scappati dalle incursioni algerine (se ho ben capito). Ci spiegano la primavera araba vista da loro, e che per loro Gheddafi in fondo non era considerato il Male, ma un capo che aveva un’idea di Africa unita e indipendente dall’Europa (e in particolare dalla Francia, della quale non ho mai sentito parlare in termini positivi in Burkina), purtroppo il voler imporre l’Islam come religione per tutti gli aveva allontanato le simpatie di molti, soprattutto qua in Burkina, dove la religione è vista come una scelta personale e vissuta in tranquillità e tolleranza verso ogni altra forma di culto.
Alle due circa siamo di ritorno a Laafi Roogo. Dopo la notte nell’albergo a Dori mi sembra di tornare al Grand Hotel, con la sua doccia, l’aria condizionata, il pavimento e le lenzuola pulite.
Rispetto all’anno scorso sono meno scioccata da quello che vedo, e questo mi dà modo di pensarci con più lucidità, e di vedere la siccità e gli sforzi delle persone per sopravvivere e migliorare la propria condizione. E non so se è giusto non restare più sconvolti, perché in fondo io guardo ma non condivido veramente, la mia camera viene pulita ogni mattina da una signora gentile e sorridente, l’aria condizionata mi fa dormire di notte, posso godermi il lusso di scegliere cosa mangiare. Ecco questo è il dramma della mia Africa, vedere tutto questo, trovarmici in mezzo, ma restarne nonostante tutto estranea.

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